mercoledì 1 maggio 2013

Quousque tandem abutere mulieribus?

 

Medea è ribelle perché grida se è arrabbiata e ride forte se è allegra.                             

Medea è selvaggia perché fa a modo suo. 

Medea è sfrontata perché cammina a testa alta e lascia scoperti sulle spalle i suoi ricci neri, non come le brave mogli di Corinto che li nascondono agli occhi dei maschi che non siano i loro mariti.                                   

Medea è una strega perché non vive all’ombra di Giasone ma ha una professione: cura gli ammalati.                                    

Medea è una barbara e a Corinto tutto ciò non è permesso alle extracomunitarie. Medea è pericolosa perchè vuole sapere di che lacrime grondi e di che sangue il potere di Creonte.

  Medea deve essere punita ma i Corintii sono giusti e hanno bisogno di prove, devono inventarsi altre prove, perché la prova delle prove non è dicibile. L’accusano di avere ucciso il suo stesso fratello, di avere ingannato il padre per buttarsi tra le braccia di Giasone con cui vive more uxorio, di avere scatenato la peste a Corinto, di essere stata complice delle sue connazionali dell’evirazione dell’allievo astronomo Turone, un poco di buono peraltro. 

Ma non bastava ai corinti.

                                                                         

 Per non dimenticare, secoli dopo, offrono trenta denari ad Euripde perché la trasformi in figlicida. Il miscredente e sopraffino teatrante, per beffarsi di loro, aggiunge l’escamotage di metterla sul carro del sole a fare bay-bay a Corinto, assieme ai gemelli resuscitati.                                                                                       Ma la frittata era fatta e per quante ragioni avesse avuto in vita, chi sarebbe mai stato disposto a perdonarla per il misfatto o anche solo per il dubbio? Medea viene lasciata sola per duemilacinquecento anni ma Christa Wolf, che ha patito sulla sua pelle le delazioni ordite dal potere maschile nella nuova Germania riunificata in nome del valore dell’oro e non della persona umana, ne riscrive il mito inseguendola di sito in sito in cerca di notizie sulla sua figura prima dell’arrivo dell’intellettuale Euripide. 

                                               E le “Voci” ci restituiscono la vera Medea, vera in quanto le sue esperienze le abbiamo vissute e le viviamo noi donne, sulla nostra pelle, sia che siamo autoctone sia che siamo barbare islamiche.     Ma il piccolo e sublime libro non è una lotta “maschi contro femmine” né un peana nostalgico ad un idialliaco e pacifico mondo arcaico matriarcale, peraltro forse mai esistito, che Medea bolla così:"…Mi è rimasto un ribrezzo per quei tempi antichie per le forze che liberano in noi e che non sappiamo più padroneggiare". E’ impossibile ricomporre singoli frammenti del passato e applicarli alla nuova realtà. Bisogna trovare vie nuove, quelle della relazione tra maschi e femmine senza impuntarsi sulle diversità ma facendone scaturire una nuova visione del mondo e un nuovo agire politico. Non tutti i maschi sono infami e non tutte le femmine sono agnellini. I primi possono essere crudeli e assetati di potere come Acamante, Creonte o solo deboli come l’intellettuale Leuco o l’inetto Giasone, ma anche buoni e amabili come il cretese Oìstros, lo scultore amante di Medea. 

Le seconde non sempre sono vittime della violenza maschile, ma possono scagliarsi contro il loro genere sottomettendosi al potere maschile per interesse come Agameda, che non vuole essere una nullità, una barbara emarginata ma godere di ciò che le donne di Corinto godono. O la povera Glauce combattuta tra odio ed amore per Medea ma che preferisce la rimozione e il suicidio piuttosto che stare dalla sua parte affrontandone le conseguenze. E poi c’è tutto quel corteo di donne che subisce e soccombe: come le due regine private dei figli dal cieco potere dei mariti; Lissa che riempie la sua vita badando ai figli di Medea; Aretusa la cretese costretta a nascondersi e a subire le attenzioni del vecchio che l’ha salvata, rinunciando anche all’amore con Leuco; e infine Circe, zia di Medea, che ha subito la stessa sua sorte.                                      

 Il punto non è, per la Wolf, di separare le donne dagli uomini, cosa innaturale anche in epoca di fecondazione artificiale. Il punto è fare incontrare questi esseri umani, uguali e diversi, per sfidare insieme la solitudine dell’infinito mondo. Ma tutto questo non è dietro l’angolo. 

Medea conclude: "E’ pensabile un mondo, un tempo, in cui io possa stare bene? Qui non c’è nessuno cui possa chiedere. E questa è la risposta."